domenica 7 giugno 2015

Grande Guerra: perchè gli inglesi ignorano (totalmente) la partecipazione dell'Italia?

Perchè gli inglesi e la loro ricerca storica, ignorano la partecipazione del Regno d'Italia nella Grande Guerra?

Se lo chiedete all'inglese della strada neppure sa che l'Italia ha combattuto (al loro fianco) nella Grande Guerra. No, non stiamo scherzando.

Se poi portate un amico britannico a fare un'escursione sulle Alpi e gli mostrate le trincee e gallerie scavate in quota, probabile che cada dalle nuvole quando gli spiegate perché qualcuno s'è preso la briga di fare queste opere a duemila metri d'altezza e lungo un fronte di centinaia di chilometri.

1917 - Personale dell'ospedale della British Red Cross
presso la villa dei conti Trento a Dolegnano (Friuli).
Il direttore era lo storico inglese George Macaulay Trevelyan
(tratta da "Gaspari Editore "Il Combattimento di Pradamano")

Peggio, negli ambienti accademici o della storiografia ufficiale è di fatto rarissimo che si consideri l'Italia nella Prima Guerra Mondiale. Basti pensare che la recente pubblicazione curata dall'università di Cambridge sulla storia della Grande Guerra (ben 3 volumi "The Cambridge History of the First World War"), tra migliaia di pagine dedica all'Italia solo uno striminzito capitoletto.

Per inciso, il contributo di sangue sul piano militare è stato simile: la Gran Bretagna ha avuto 700 mila morti (900mila se si includono i territori dell'Impero) e l'Italia 650mila. Senza contare che l'Italia oltre ai morti militari ha dovuto contare le morti tra i civili, spesso, deportati dagli austriaci, che la Gran Bretagna non ha dovuto soffrire.

Questo ignorare l'Italia è una questione storica (e culturale) di non poco conto.

Il 4 giugno scorso, s'è discusso di Grande Guerra all'Istituto Italiano di Cultura a Londra all'incontro dal titolo "Italy's Great War: The experiences of soldiers on the Italian front, 1915-18". Anche in quella sede si è sollevato il problema e pure l'archivista dell'Imperial War Museum ha ammesso che in effetti di Italia, in relazione alla Grande Guerra, in Gran Bretagna non si parla.

A livello di ipotesi, una spiegazione che è stata data durante la serata (da un relatore inglese) è che quando le truppe britanniche arrivarono in Italia si era già sul Piave (novembre 1917- novembre 1918) e la guerra dell'Italia era ormai una guerra difensiva con relativamente poca azione ad esclusione delle tre battaglie decisive inclusa quella finale di Vittorio Veneto. Quindi, rispetto al fronte Occidentale della Francia e del Belgio, fatto di continui massacranti attacchi e contrattacchi, il Piave del 1917-18 era visto dagli inglesi come un fronte decisamente più tranquillo. Questa sorta di relativa tranquillità è poi stata trasmessa nei resoconti in patria con il risultato che lo sforzo bellico dell'Italia fu pressoché ignorato, anche dagli Alleati inglesi, americani e francesi, al tavolo di pace a Versailles (tragicamente memorabile la scena, descritta nel libro "Peacemakers", del nostro primo ministro Vittorio Emanuele Orlando che, per la frustrazione, esce piangendo dalla sala riunioni).

Questa spiegazione ci lascia perplessi e non ci soddisfa appieno. 

Dalle quattro chiacchiere fatte coi relatori (italiani) della serate è una questione che in effetti non si è esplorata per niente: in Italia nessuno sa cosa pensano all'estero sulle nostre vicende storiche al di là di quello che è menzionato in pochissime pubblicazioni; all'estero pochi si preoccupano di cambiare la percezione di irrilevanza della guerra sul fronte italiano (solo lo storico inglese Mark Thompson in "The White War" s'è preso la briga di informare compitamente i suoi compatrioti, ma il libro è molto recente, del 2010). Per altro, la mancanza di interesse all'estero al riguardo della Grande Guerra dell'Italia, la'annota pure l'esperto Gaspari nel suo "Le curiosità della Grande Guerra".

Dal canto nostro, da osservatori amatoriali della Storia, notiamo che il grande scrittore e all'epoca inviato del Daily Telegraph Rudyard Kipling, fu mandato sul fronte alpino italiano e ne descrisse alcuni aspetti (vedi: Messaggero Veneto: "Quando Kipling vide e raccontò la Grande Guerra") poi messi nero su bianco in una serie di scritti oggi raccolti in un libro ("La guerra nelle montagne. Impressioni dal fronte italiano"). Il problema a livello di "immagine" di questi racconti è che forse hanno dato al pubblico inglese una visione edulcorata della guerra dell'Italia: gli Alpini che scalano una montagna con corde e picozze ovvero, come intenti semplicemente a fare "alpinismo", uno sport allora appannaggio dell'élites, più che a morire sotto il fuoco nemico in sanguinosi scontri. Tra l'altro, secondo le statistiche che cita il Gaspari in "Le curiosità della Grande Guerra" a livello di morti "in battaglia" il fronte del Carso falciò ben il 22% dei soldati impegnati nei combattimenti (essenzialmente della Fanteria) mentre sul fronte alpino "solo" l'11% (il resto, pur numeroso, dei caduti in montagna furono vittime di valanghe, congelamento e malattie legate all'esposizione ad intemperie). Insomma, quello che descrisse Kipling non era il fronte "giusto" per dare un'immagine di quella che fu la guerra dell'Italia: le pietraie in salita del Carso, senza acqua, con pietre le cui schegge moltiplicavano l'effetto delle esplosioni e senza offrire ripari naturali di fronte alle moderne mitragliatrici da 400 colpi al minuto. Molto peggio del fango del Western front!

Trevelyan qualcosa scrisse. Evidentemente non abbastanza e forse non quello che si doveva scrivere?

Paradossalmente, non aiutano neppure le pagine dell'americano Ernest Hemingway che arrivò in Italia nel 1918 inquadrato nella Croce Rossa Americana alle falde del Pasubio (nelle retrovie) e poi, brevemente, sul Piave dove fu ferito. Le informazioni che ha sul fronte più cruento, quello dell'Isonzo del 1915-17, secondo lo storico della Grande Guerra ed editore Paolo Gaspari ("Il combattimento di Pradamano") gli arrivano dall'infermera inglese Agnes Conway. Informazioni che lui poi utilizzò per alcuni stralci del romanzo "A Farewell to Arms", "Addio alle Armi"). La Conway (da non confondere con Agnes von Kurowsky, infermiera americana di cui si innamorò e che ispirò poi il personaggio dell'infermiera "Catherine Barkley" in "Addio alle Armi") prima di essere assegnata all'ospedale della Croce Rossa Americana di Milano, era dislocata presso l'ospedale della Croce Rossa Britannica di Dolegnano (oggi in comune di San Giovanni al Natisone) all'epoca a ridosso del fronte della II Armata italiana che fronteggiava gli austroungarici da Plezzo (Bovec) a Gorizia. Secondo il Gaspari, qui la Conway avrebbe appreso le informazioni sugli scontri sanguinosi sull'Isonzo dai barellieri e da vario personale di prima linea oltre che all'aver vissuto in prima persona lo sbandamento e la ritirata di massa dopo lo sfondamento tedesco/austroungarico a Caporetto. I dettagli dell'attraversamento del ponte (sul fiume "Torre") sono poi ripresi nel romanzo da Hemingway con rilievi molto verosimili che però lui non verificò in prima persona ma, sempre secondo il Gasperi, riprese dai racconti (evidentemente dettagliati) della Conway. 

Però anche qui le vicende sono state mostrate al pubblico anglosassone con la formula molto addolcita del romanzo e per di più in chiave antimilitarista che altro non fa che sminuire l'idea di un contributo importante dell'Italia alla causa degli Alleati dell'Intesa.

A questo punto c'è pure da giocare la carta da Novanta. Il Gaspari, en passant, menziona il fatto che la Agnes Conway, a Dolegnano, era alle dipendenze del capo dell'Ospedale della Croce Rossa Britannica... tale George Macaulay Trevelyan! Ebbene Trevelyan è stato uno dei più conosciuti e rispettati storici inglesi e dall'esperienza sul fronte italiano durante la guerra trasse il libro "Scenes from Italy's war". La domanda che ci si fà è: come mai uno storico così importante non ha elaborato ulteriormente sulla Guerra in Italia? Come mai negli anni del primo dopoguerra non è andato oltre il suo libro sulla guerra in Italia con studi più approfonditi e divulgativi? Grazie ai contatti che aveva stabilito in Italia tra i militari e probabilmente anche con borghesi avrebbe avuto materiale di prima mano per descrivere gli eventi. Il solo monte San Michele, alle falde di Gorizia, a soli 20 km da Dolegnano, costò la vita a 111mila italiani (dei 650 mila caduti). Carneficine del genere sono pari a quelle del  Western Front, e probabilmente, numeri alla mano, pure peggiori. Cos'è mancato in termini di dedizione ed eroismo agli Italiani di fronte a certi numeri? Sebbene con molte pecche sul piano della tecnica militare antiquata degli Alti Comandi, c'erano state pure vittorie con la conquista di Gorizia e l'avanzata verso la Bainsizza. Perché limitare la narrazione di questi eventi? 

A proposito, se ci permettete la divagazione nella mondanità dell'epoca, l'ospedale, la cui sede era nella villa dei conti Trento a Dolegnano, era diventato un "angolo di Britannia" frequentato dalla moglie del duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta (il Duca d'Aosta, comandante della III Armata), la duchessa Elena d'Orleans. La duchessa era l'ispettrice generale delle infermiere volontarie Croce Rossa Italiana ma la sua frequentazione a Dolegnano era, verosimilmente, dovuta al fatto che lei stessa era nata a Twickenham, poco fuori Londra, dove la sua famiglia (di regnanti francesi) fu costretta all'esilio dopo i fatti parigini del 1848. Di fatto era cresciuta come una vera e propria nobildonna inglese, il matrimonio con il duca era avvenuto nel 1895 a Kingston upon Thames e i figli Amedeo (che sarà poi nel 1941 l'eroe dell'Amba Alagi) e Aimone, studiarono al prestigioso college della nobiltà britannica, Eton. Tra l'altro Amedeo, poco più che sedicenne, servì come volontario nel reggimento di artiglieria a cavallo "Voloire" e fu destinato alla prima linea come servente d'artiglieria sul Carso. Secondo le cronache della storia ufficiale, qui servì come caporale senza privilegi ed arrivò a guadagnarsi i gradi di tenente sul campo. Suo fratello da giovanissimo ufficiale di marina fu pilota di idrovolanti.

Ci pare strano che a Trevelyan non siano giunte le testimonianze dei drammi della guerra dell'Italia sul fronte carsico da parte della duchessa Elena che, nella sua veste di ispettrice della Croce Rossa, di ospedali ne doveva aver visitati. Ci pare strano che a Trevelyan non siano giunte notizie di prima mano da parte del Duca d'Aosta e di suo figlio Amedeo vista la frequentazione con la duchessa. Con tutte queste informazioni possibile non riflettere la drammaticità della guerra che era evidentemente ben più di una semplice vacanza sulle Alpi e nelle ville delle campagne friulane?

Ad aggiungere pepe c'è il fatto che, secondo il Gaspari, a Dolegnano, nello stesso ospedale di Trevelyan, come infermiera c'era anche l'anglo-italiana Freya Stark, la madre di quello che divenne poi il genere letterario del travel writing.

Possibile che tanta potenza di fuoco giornalistico-letterario non abbia fatto trasparire all'opinione pubblica britannica il contributo di sangue tremendo dell'Italia?

L'immagine dell'Italia come nazione marginale nella Grande Guerra da parte dell'opinione pubblica e degli storici britannici, sicuramente è figlia di tanti fattori, tra cui si può includere il dover trovare una ragione in più per ignorare tutte le concessioni territoriali promesse nel Patto di Londra; la nascita e sviluppo del Fascismo che ad un certo punto chiamò la Gran Bretagna ad un'azione di contenimento se non di denigrazione di ciò che si riferiva all'Italia divenuta una nazione nemica ecc. 

Tant'è che fior fiore di giornalisti e storici britannici non son riusciti a testimoniare equamente, lo sforzo italiano nella Grande Guerra. L'opera monumentale di Mark Thompson (The White War) si spera sia solo l'inizio ma toccherà ai nostri storici (e diplomatici?) contribuire a interrompere un secolo di oblio tra gli inglesi sul contributo italiano alla Prima Guerra Mondiale.

650mila morti, caduti anche per compiacere gli allora piani dell'Impero Britannico, lo meritano.

F. Biscotti

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